Gianfranco Ravasi

IL BELLO DELLA BIBBIA

Tratto da Famiglia Cristiana
 

Due sapienze a confronto

Ho qui davanti a me, da un lato, quattro grossi volumi che totalizzano più di 1.500 pagine e, dall’altro, tre volumi altrettanto fitti che trattano lo stesso soggetto: sono due monumentali commenti - l’uno in francese composto dall’esegeta domenicano C. Larcher, e l’altro in italiano, del professore universitario G. Scarpat - dedicati a un libro dell’Antico Testamento di soli 19 capitoli, scritto non in ebraico ma in greco, alle soglie dell’era cristiana, forse ad Alessandria d’Egitto. 

È il Libro della Sapienza, 

un’opera che con molta finezza affronta tre temi: 

l’immortalità beata del giusto (capitoli 1-5), 
la sapienza come dono divino (capitoli 6-9) 
e la storia come lotta tra bene e male, 
meditata alla luce dell’esodo di Israele dall’oppressione faraonica (capitoli 10-19).

Ho avuto la fortuna nella mia vita di aver studiato quest’opera biblica sotto la guida di uno dei maggiori studiosi di Platone, il gesuita francese E. Des Places, morto quasi centenario l’anno scorso. Nei suoi corsi egli cercava di mostrare come questo autore sacro, che si era rivestito dei panni ideali di Salomone, considerato il padre della sapienza (cioè della riflessione filosofico-teologica) d’Israele, facesse balenare in filigrana a ogni sua pagina i rimandi o le allusioni alla cultura greca a lui ben nota.
Vorremmo oggi indicare un esempio di questa sua attenzione al pensiero che circolava nella città ellenistica in cui egli viveva e all’atmosfera culturale che egli respirava. Questa volta mostreremo come il Libro della Sapienza prenda le distanze da una certa visione del mondo proposta da alcune filosofie considerate inaccettabili. Nel capitolo 2 dell’opera, infatti, si introduce una sorta di canto corale degli empi che, tra l’altro, esclamano:
«Siamo nati per caso, e dopo saremo come se non fossimo stati. È un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore. Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere e lo spirito si disperderà come aria leggera» (2,2-3).
Larcher, nel commento a cui sopra si accennava, precisa che ogni vocabolo greco usato dall’autore ispirato ha paralleli nella cultura filosofica greca e indica come emergano rimandi alla visione stoica, al pensiero del filosofo Eraclito, a quello di Democrito, a una concezione materialistica che considera il pensiero come una scintilla emessa dal battito cardiaco, destinata a estinguersi con la morte. Di fronte a una prospettiva simile la reazione è una sola. Se la vita è come «nube o nebbia scacciata dai raggi del sole, allora godiamoci i beni presenti..., inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli di rose, prima che avvizziscano» (2,4-8). 
Ma l’autore biblico suggella così questo ragionamento: «La pensano così ma si sbagliano, la loro malizia li ha accecati» (2,21).

Gianfranco Ravasi

IL BELLO DELLA BIBBIA

Tratto da Famiglia Cristiana
 

Nelle mani dell'Onnipotente

Nei mari estremi è il titolo di un libro autobiografico della scrittrice Lalla Romano apparso nel 1987 e riedito lo scorso anno da Einaudi con un’interessante premessa che, tra l’altro, spiegava anche il valore allusivo di quel titolo. Esso, infatti, ricalca l’equivalente di una novella di Hans Christian Andersen, famoso autore ottocentesco danese di fiabe. In quella novella si giustificava già la vera origine di quel titolo: due marinai, personaggi del racconto, prima di addormentarsi leggono un brano della Bibbia. E una sera s’imbattono nel Salmo 139 (138),9: «... pur nei mari estremi, la Tua mano mi guida, mi sostiene la Tua destra!». Alla fine, quando il sonno avvolge il lettore, «la Bibbia era sotto il capo del marinaio, e la Fede e la Speranza nel suo cuore. Dio era con lui... pur nei mari estremi».
Ebbene, il Salmo 139 che invitiamo a cercare nella Bibbia presente in tutte le case dei nostri lettori è un gioiello di grande bellezza e di intensa spiritualità. «Vi si avverte», scriveva ii teologo A.T. Robinson, «il senso miracoloso, avvincente e straordinario di Dio che si proietta in ogni direzione, sopra, sotto, innanzi e indietro». È l’esperienza della presenza totale di Dio, dalla quale è folle fuggire. San Paolo ad Atene, citando il poeta greco Arato di Soli (III sec. a.C.), affermava che «in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28).
Si inizia celebrando l’onniscienza divina: Dio mi conosce «quando seggo e quando mi alzo, quando cammino e quando sosto», azioni estreme che riassumono tutte le altre. Gli sono familiari anche il pensiero e la mia parola prima ancora che sboccino. 
Si esalta, poi, l’onnipresenza divina: tutto lo spazio è percorso dal Signore, quello verticale (cielo-inferi) e l’orizzontale (est-aurora e ovest-mar Mediterraneo); anche il tempo con la sua sequenza notte-giorno è perlustrato da Dio, al quale non resiste né la tenebra né la morte. Il salmista si fissa successivamente sulla realtà più stupenda, l’uomo, “prodigio” di Dio. 
Attraverso il simbolo del vasaio, dello scultore e dei tessitore si dipinge l’azione divina nel segreto del grembo della madre. 
Il Creatore riesce a scorgere in quell’embrione già tutto il suo destino futuro:
«Anche l’embrione i tuoi occhi l’hanno visto», si legge nel versetto 16, «e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che furono formati quand’ancora non ne esisteva uno!».
In finale il Salmo esplode in un grido veemente contro i nemici di Dio che si illudono di sfidarlo. Ma il tono globale dell’inno è quello della serenità: si è certi che non si può cader fuori dalle mani dell’Onnipotente. 
Anche un antico testo aramaico, scoperto a El-Amarna, in Egitto, affermava: «Se noi saliamo in cielo, se noi scendiamo negli inferi, la nostra testa è nelle Tue mani!».
Gianfranco Ravasi

IL BELLO DELLA BIBBIA

Tratto da Famiglia Cristiana
 

Ogni cosa ha il suo tempo

Continuiamo la nostra lettura di Qohelet - Ecclesiaste, un libro biblico dalla bellezza tenebrosa e inquietante. 
Delle sette malattie dello spirito che egli sembra presentarci già tre sono sfilate davanti a noi: quelle del parlare, dell’agire e del sapere.

Quarta malattia: intacca l’essere intero, cioè quel cosmo e quella storia sui quali il sapiente biblico tradizionale si gettava con grande passione, convinto di poterli penetrare, studiare, plasmare. Cominciamo con la natura, per scoprire come la considerava Qohelet. È una strofa di grande bellezza, “una perla del libro”, secondo la definizione di uno studioso, Thomas K. Cheyne. Leggiamola: «... La terra è eternamente ferma. Sorge il sole; tramonta il sole affannandosi verso quel luogo da cui rispunterà. Soffia il vento dal sud, gira a settentrione, passa girando e rigirando il vento e sui suoi giri ritorna il vento. Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure mai il mare si colma; alla foce scorrono i fiumi e di là essi riprendono a scorrere» (1,4-7).
Significativo è il segno del vento che ben illustra questo “girare” (il verbo risuona quattro volte) a vuoto del creato che non è più capace di parlarci di Dio o di un progetto cosmico, come voleva la sapienza biblica tradizionale (vedi il Salmo 19). 
La creazione non è più una pergamena miniata, ma un palinsesto perpetuo su cui si scrivono e cancellano ininterrottamente ghirigori ripetitivi. 

E dopo la natura, la storia. Il rimando classico è a una delle pagine più popolari di Oohelet. Essa è potente nella sua povertà stilistica, affidata all’arida e litanica brutalità del parallelismo ripetuto in modo rigido, vero e proprio rosario di «tempi e stagioni» (3,1-9). Su un asse predeterminato ruota il disco uniforme degli eventi, il suo inesorabile svolgersi è monotono come un suono ripetuto, è implacabile come il fluire di una colata, è stridente come un intervento di demolizione. Su questo gorgo circolare “infinito” si leva la domanda radicale: Che valore ha tutto ciò?
Qohelet ci presenta quattordici coppie di estremi che, di loro natura, vogliono indicare una totalità, secondo la simbolica dei numeri cara all’Oriente. Si tratta di 28 elementi, scomponibili in due numeri perfetti, il 7 che suggerisce pienezza e il 4 che rimanda alla totalità dei 4 punti cardinali (o anche a un giuoco di 7 e di 2: 7x2; 14x2=28). Ecco la litania dei tempi nel suo risultato finale.
«Tutto ha la sua stagione, ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo: / il tempo di nascere e il tempo di morire, / il tempo di piantare e il tempo di sradicare, / il tempo di uccidere e il tempo di medicare, / il tempo di demolire e il tempo di costruire, Il tempo di piangere e il tempo di ridere, / il tempo di gemere e il tempo di ballare, / il tempo di gettare pietre e il tempo di raccoglierle, / il tempo di abbracciarsi e il tempo di allontanarsi, / il tempo di cercare e il tempo di perdere, / il tempo di conservare e il tempo di buttar via, / il tempo di strappare e il tempo di cucire, / il tempo di tacere e il tempo di parlare, / il tempo di amare e il tempo di odiare, / il tempo di guerra e il tempo di pace» (3,1-8). 
La storia è, dunque, malata; non ha nessuna traiettoria finalizzata, si curva su sé stessa senza sosta in modi ripetuti. 
Non ha più una direzione e una meta messianica, come insegnava tutto l’Antico Testamento. Essa è un cerchio chiuso in sé stesso, nel suo ripetersi senza fine.

Gianfranco Ravasi

IL BELLO DELLA BIBBIA

Tratto da Famiglia Cristiana
 

L'inverno dell'esistenza

Ritorniamo anche questa volta sul libro di Qohelet - Ecclesiaste.
L’abbiamo esaminato quasi come fosse una diagnosi su sette malattie dell’esistenza.
Già abbiamo visto le crisi della parola, dell’azione, della sapienza, della storia.

Quinta malattia è quella che intacca la società: «Io mi sono messo a considerare tutte le violenze perpetrate sotto il sole: ecco le lacrime delle vittime da nessuno consolate, da nessuno consolate contro il forte potere dei violenti» (4,1).
La comunità umana e la vita dei popoli sono malate di violenza e di ingiustizia. il mondo è come una giungla in cui l’uomo impazza, in attesa di morire o di essere ucciso.
Anche i profeti avevano registrato questa situazione, ma avevano reagito con veemenza, denunziando il male e tentando di sovvertire tali logiche infami. Qohelet si accontenta invece di tratteggiare con amarezza il disordine sociale, non lascia trasparire sdegno né tantomeno invita alla lotta. Anzi, la sua conclusione è del tutto pessimistica: «Io allora ho proclamato i morti ormai trapassati più beati dei vivi ancora in vita e più beato di entrambi chi non esiste ancora e non ha ancora visto il male perpetrato sotto il sole» (4,2-3).
Triste e terribile beatitudine!

La sesta malattia è quella che infetta la stessa esistenza umana ed è dipinta in una delle pagine poeticamente più alte ove Qohelet coglie la vita dall’angolo di visuale del tramonto, cioè della vecchiaia (si legga integralmente il testo di Qohelet da 11,7 a 12,7). Una coltre di tenebra avvolge tutto lo spazio e tutto il tempo: è l’immagine di un inverno senza sole che non ha mai fine, sono giorni di vita che non si ha voglia di assaporare perché fanno nausea. L’inverno è la stagione più vera dell’uomo, quella che ne definisce meglio la qualità e il senso.
Qohelet ci conduce, poi, in un castello in sfacelo. Sulla porta ci incontriamo con i guardiani della casa, sono vecchi tremolanti, incapaci di bloccarci. Superata la portineria, ci si parano innanzi “gli uomini forti”, cioè la polizia privata, la guardia del corpo, ma ci fanno quasi compassione, decrepiti e curvi come sono. Siamo ormai nel cortile del palazzo. Le ultime donne che devono macinare il grano per il pane sono così vecchie e deboli da essere incapaci di far ruotare la grossa mola sul basamento.
Lo sguardo si alza ai graticci delle finestre, in uso ancor oggi nei palazzi arabi per schermare l’ardore e il bagliore dei sole: non riusciamo a intravedere al di là di essi il balenare di occhi femminili. Ancor più insopportabile è il silenzio che ci avvolge in una fissità atemporale. Sembra che persino gli uccelli siano fuggiti: il loro cinguettio, d’altronde, non sarebbe neppur sentito dai vecchi abitanti del palazzo. Anche le canzoni con le loro melodie e i loro ritmi si sono affievolite sino a spegnersi perché gli anziani non amano cantare né essere circondati da canzoni, segno di allegria e di giovinezza spensierata.

In questo disegno del castello in sfacelo cui seguirà quello della campagna circostante e dei segni della morte si cela un’evidente allusione al corpo dell’uomo che sta avvicinandosi alla polvere per dissolversi in essa: “i guardiani della casa” sono le braccia, “gli uomini forti” le gambe, “le macinatrici” i denti, le donne che guardano dalle inferriate gli occhi, lo spegnersi dei canti la sordità
dell’orecchio... 

Gianfranco Ravasi

IL BELLO DELLA BIBBIA

Tratto da Famiglia Cristiana
 

Niente di nuovo sotto il sole

È certamente la proposta di lettura biblica più ampia tra quelle finora suggerite in questa rubrica. 
La stiamo dedicando già dalla scorsa settimana a Qohelet - Ecclesiaste, il sapiente dell’Antico Testamento che fa balenare idealmente davanti ai nostri occhi sette malattie dello spirito che sono ancor oggi attuali.

La prima riguarda il linguaggio: «Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle» (1,8). L’idea è straordinariamente moderna, se pensiamo all’attuale crisi del linguaggio, alle parole “malate”, a quelle “nere”, cioè prive di senso e abusate, alle ragnatele della chiacchiera e dei luoghi comuni. In ebraico, però, considerata l’efficacia del termine, debarim, “parole”, significa anche “fatti”: le cose sono stanche, si disfanno, «tutto nella vita diventa logoro: parole e situazioni. 
Tutte le parole sono già state dette» - così il romanziere ebreo austriaco Joseph Roth nel Mercante dei coralli. E la parola stampata corre lo stesso rischio: «Si fanno libri e libri senza fine» (12,12). Lo scrittore ebreo di lingua tedesca Elias Canetti nel suo romanzo "Auto da fé" introduce Qohelet: «Una voce annuncia - questa voce sa tutto ed è la voce di Dio -: Qui non ci sono libri. Tutto è vanità». Persino il linguaggio visivo e musicale si stempera: «Mai l’occhio è sazio di vedere, mai l’orecchio è sazio di sentire. Eppure quel che è stato sarà, quel che si è fatto si rifarà: assolutamente niente di nuovo sotto il sole!» (1,8-9).

La seconda malattia è quella del fare o, come ama dire Qohelet, dell’amai, del “faticare”, per cui il lavoro è labor, cioè “fatica”, alienazione, travaglio (il travail francese!). Siamo ben lontani dall’entusiasmo mostrato dalla sapienza biblica tradizionale nel descrivere le capacità eccezionali dell’uomo lavoratore. La domanda d’avvio del libro è lapidaria: «Quale valore ha tutta la fatica che affatica l’uomo sotto il sole?» (1,3). Sembra di sentire il Petrarca del Trionfo della morte: «O ciechi, e il tanto affaticar che giova?». Di nuovo in 2,18: «Io ho in odio ogni fatica di cui io ho faticato sotto il sole», parole messe in bocca a Salomone! E poche righe dopo: «Io ho il cuore invaso dalla disperazione per tutta la fatica con cui ho faticato sotto il sole» (2,20), fatica destinata a dissolversi nello spreco degli eredi. E ancor più forte la domanda diviene in 5,15: «Che valore ha faticare per il vento?». A confessarlo è Salomone, delle cui spoglie si ammanta Qohelet, che aveva fatto «opere magnifiche, si era eretto palazzi, si era piantato vigne, preparato giardini e parchi, piantandovi alberi dai mille frutti, si era scavato canali d’acqua per irrigare quelle piantagioni lussureggianti, si era allevato mandrie di buoi e di pecore più numerose di tutte quelle dei suoi predecessori in Gerusalemme, aveva accumulato anche argento e oro, tesori di regni e di province» (2,4-8).

Terza malattia: la crisi dell’intelligenza. Qohelet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale, come dice anche l’epigrafe finale (12,9-10), disprezza la stupidità; per ben ottantacinque volte introduce le sue riflessioni in prima persona, consapevole di una sua originalità di pensiero. Eppure il risultato finale del conoscere è amaro: «La mia mente è penetrata profondamente nella sapienza e nella scienza. Sì, la mia mente è penetrata nella sapienza e nella scienza, nella follia e nella stupidità e ho capito che anche questo è fame di vento. Infatti, grande sapienza è grande tormento; chi più sa più soffre»(1,16-18).