Gianfranco Ravasi

IL BELLO DELLA BIBBIA

Tratto da Famiglia Cristiana
 

La Torre che Sfida il Cielo

Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? 
E « com’è che li sentiamo ciascuno parlare nella nostra lingua nativa?» (Atti 2,7-8). 
Tutti ricordano la cornice della Pentecoste descritta da Luca negli Atti degli Apostoli: la dispersione, la confusione “babelica” sono cancellate dalla forza unificante e illuminante dello Spirito Santo che nella Chiesa fa a tutti professare la stessa fede
in Cristo, pur nella diversità delle lingue e delle culture. 
Ebbene, questo rimando allusivo a Babilonia ci permette di presentare brevemente la celebre pagina di Genesi 11,1-9.
La “torre di Babele”, infatti, è uno dei soggetti che più prepotentemente si è insediato nell’immaginazione popolare e nella storia dell’arte. Pensiamo solo all’intaglio in avorio del duomo di Salerno, forse una delle prime rappresentazioni del tema (XI sec.), ai mosaici della Cappella Palatina di Palermo (XII sec.), del duomo di Monreale (XII sec.), dell’atrio di S. Marco a Venezia (XIII sec.). Pensiamo alle infinite miniature, all’affresco di Benozzo Gozzoli (XV sec.) nel Camposanto di Pisa, alle tavole di H. van Eyck (XV sec.) all’Aia e di P.Brueghel (XVI sec.) a Vienna e così via. 
Pensiamo alle numerosissime incisioni che accompagnavano le Bibbie e, se si vuole, anche al film Metropolis di F. Lang (1926).
Ma questa pagina biblica ha la sua forza soprattutto nel messaggio religioso che propone. 
Attraverso la prepotenza oppressiva — che è una nuova incarnazione del “peccato originale” presentato nel capitolo 3 della Genesi — si trasforma la ricchezza della varietà delle culture, delle razze, delle nazioni, descritta nel precedente capitolo 10, in un groviglio di esclusivismi, tensioni razziali, prevaricazioni e nazionalismi imperialistici.
L’autore biblico fonde nel suo racconto elementi differenti. 
C’è l’avversario tradizionale di Israele, Babilonia, il cui nome (Babel), che significa “porta di Dio” (cioè città perfetta), viene
liberamente interpretato sulla base del verbo ebraico balal, vuol dire “confondere”. 
C’è, poi, la “torre” che rimanda alla ziqqurat, cioè al tipico tempio mesopotamico a gradoni che aveva al vertice il santuarietto del dio. 
A Babilonia questo tempio era grandioso e portava il nome di Entemenanki , cioè “casa delle fondamenta dei cielo e della terra”, ed è per la Bibbia il simbolo dell’idolatria.
C’è, infine, la diaspora dei popoli in forme opposte e divise di cultura, segno del peccato di orgoglio delle grandi potenze castigato dal Signore che «disperse gli uomini su tutta la terra» (11,8). Babilonia diventa, così, l’emblema dell’oppressione blasfema, del potere che sfida Dio e s’illude di dominare il mondo, creando divisioni, odio, miseria. 
La pluralità di culture e civiltà è, invece, un segno positivo quando si sviluppa nell’armonia, nella libertà, nella creatività. 
Diventa allora simile a una musica o a un coro dai mille suoni e dalle tante voci che si muovono in concerto, proprio come accade nella Pentecoste cristiana.